mercoledì 3 agosto 2011

Post Punk

La terminologia "post punk" è volutamente generica in quanto, in essa, rientrano espressività che, pur riconducibili alla rivoluzione punk, si evolvono secondo linee le più diverse e frammentate.
Subito dopo l'esplosione "ribelle" del biennio '76-'77, molte di quelle formazioni intraprendono una strada che le sganci da certa monotonia espressiva del punk, per elaborare nuovi percorsi (espressi sia nell'assemblaggio non sempre ortodosso dei generi musicali "base", sia nel netto recupero della "forma canzone"), pur nel rispetto di quelle coordinate stilistiche.

Madrina della new wave è colei che diventerà in breve tempo la più nota "poetessa" del rock: Patti Smith, nervosa e febbrile cantautrice originaria di Chicago, ma attiva nel circuito underground di New York. E' proprio al suo primo 45 giri, "Hey Joe/ Piss Factory", che viene assegnato il ruolo storico di apripista della nuova scena musicale statunitense che evolverà nella new wave.

Memori della stupefacente lezione lirica e sonora dei primi due album di Patti Smith - "Horses" (1975) e "Radio Ethiopia" (1976), entrambi in bilico tra i Velvet Underground e Leonard Cohen - due formazioni di New York gettano le basi di questa nouvelle vague d'oltre Oceano. Si tratta dei Talking Heads e dei Television, che esordiscono con due ottimi dischi proprio nel '77 (l'album delle "teste parlanti" ha come titolo proprio l'anno di uscita).

Nei primi, la velocità punk degli inizi (ricordiamo la frenetica "Psycho killer") si fonde subito con ritmiche funky, chitarrismo sperimentale e misurato utilizzo dell'elettronica: il tutto sfocia in uno strepitoso crescendo con gli album "More songs about buildings and food" (78), "Fear of music" (79) e "Remain in light" (80). In quest'ultimo, David Byrne e compagni (con l'aiuto determinante di Brian Eno) danno sfogo a una creatività senza precedenti, producendo un disco epocale, "avanti" di almeno 15 anni rispetto alle sonorità del periodo, con la sua miscela di dinamiche funky, ritmi sghembi e vocalizzi stranianti. Una formula che nel corso degli anni sarà approfondita soprattutto dal leader della band, David Byrne, in un'ottica etnico-percussiva, perdendo per strada, tuttavia, buona parte del suo originario appeal. Dai Talking Heads origineranno anche i Tom Tom Club, nel segno di una funky-dance sublimata nel singolo "Wordy Rappinghood".

Television di Tom Verlaine incidono invece "Marquee Moon", un capolavoro di chitarrismo sixties irruente e delicato allo stesso tempo che conferma, con le eccellenti capacità tecniche del leader, come il post-punk vada prendendo pian piano le distanze dalla rozza superficialità del primo punk. Segue l'anno successivo un altro bel disco, "Adventure", sostanzialmente sulle tracce del precedente. Elucubrati, trasognati e ipnotici, i brani dei Television rappresentano probabilmente il vertice artistico di questo nuovo avamposto rock d'oltre Oceano.

Il tempio della new wave è un locale di New York, il CBGB's (tradizionalmente noto per l'attenzione verso generi quali Country, Bluegrass e Blues, da qui l'acronimo). Qui si esibiscono anche i Blondie dell'incantevole Debbie Harry, che sfornano hit da ko immediato, come "Heart Of Glass" e "Call Me", dando vita al cosiddetto "disco-punk". A lanciarli nell'olimpo del rock è soprattutto l'album "Parallel Lines" (1978). Sempre sul versante pop, ma con intenti più sperimentali, i bostoniani Cars di Ric Ocasek, la cui formula, ispirata a un'elettronica intelligente e a un raffinato equilibrio tra esuberanza pop-rock e romanticismo, culminerà nel grande successo mondiale di "Heartbeat City" (1984.)

Tra i pionieri americani della new wave vanno ricordati i Pere Ubu, band di Cleveland (Ohio) dedita a opere ostiche e fascinose, improntate a un art-rock in bilico tra Captain Beefheart e i Velvet Underground. Il loro capolavoro "The Modern Dance" (1978) è una sorta di piece apocalittica sulla società post-industriale, che si snoda nervosamente tra ritmi isterici, rumorismo, deturpazioni armoniche e vocalizzi allucinati (opera del cantante David Thomas).
Ma è soprattutto San Francisco, California, il laboratorio più fertile di questa nuova scena sonora, antesignana della new wave. E' qui, infatti, che si consumano gli esperimenti di tre band tanto criptiche quanto rivoluzionarie: The Residents, Chrome e Tuxedomoon.
I misteriosi Residents (anche nei loro volti, coperti dalle maschere) costruiscono collage grotteschi e parodistici à la Frank Zappa ("Not Available", "Meet The Residents"), caratterizzati da un uso avanguardistico del rumorismo e delle nuove macchine elettroniche. I Chrome prediligono invece un sound distruttivo e caotico, sorta di "requiem per l'era delle macchine", che culminerà nell'inquietante "Half Machine Lips Moves" (1979), originale commistione di punk, dadaismo, elettronica e rumorismo. Più vicini all'avanguardia che al rock tradizionale, infine, iTuxedomoon di Steve Brown raggiungono uno dei traguardi più ambiziosi del periodo con il multiforme "Half-Mute" (1980), che riesce a spaziare con disinvoltura dal pop alla musica da camera.

Una stagione del tutto particolare sarà poi quella della "no wave" newyorkese di fine anni 70, che avrà per alfieri i Contorsions di James White, i Teenage Jesus And The Jerks di Lydia Lunch, i Mars e i Dna di Arto Lindsay. Un movimento estremo ed effimero, caratterizzato da un atteggiamento nichilista e iconoclasta, tradotto sul piano musicale nell'impetuoso ricorso all'improvvisazione stile free-jazz e nella violenta deformazione "rumorista" degli stilemi tradizionali del rock. Da tale corrente attingeranno in qualche modo anche i maestri indiscussi del noise-rock di lì a venire, i Sonic Youth.

Ma è in Gran Bretagna che la new wave fiorisce in modo ancor più rigoglioso, con gruppi che, partiti stilisticamente dal punk, se ne distaccano progressivamente per elaborare un suono che ricomprenda e rielabori gli infiniti spunti prodotti dal rock dei 60 e dei 70.
E', ad esempio, il caso degli XTC, i quali, dopo aver partorito nel '78 i due primi album ("White music" e "Go 2") in pieno stile pop-punk, infilano un trittico straordinario - "Drums and wires" (79), "Black sea" (80) e "English settlement" (82) - dove il punk è solo un ricordo, sovrastato da un chitarrismo sempre in bilico tra pop e sperimentazione, da un intelligente recupero per niente nostalgico di trame psichedeliche sixties e da un "mood" tipicamente beatlesiano, il tutto avvolto in arrangiamenti sofisticati e malinconici, sorretti da testi intelligentemente umoristici e ironici.
Oppure è il caso degli Stranglers, strumentisti e compositori di vaglia a differenza di moltissime band punk: il loro percorso si dipana, a partire da quel fondamentale anno che è il '77, attraverso i primi due album ("Rattus Norvegicus" e "No more heroes"), punk all'apparenza ma già percorsi da nervose trame psichedeliche tracciate dalle tastiere, per continuare con i successivi "Black and white" (78), "The Raven" (79), "The meninblack" (81) e "La folie" (81), dove la padronanza tecnica e compositiva mette d'accordo gli ultimi rigurgiti punk con strutture e melodieprogressive di buona fattura.

Citati di passaggio i Fall - ricordiamo almeno, dalla loro vastissima discografia, "Live at Witch trials" (79), "Grotesque" (80), "Hex enduction hour" (82) e "Perverted by language" (83) -, la cui ricerca ritmico-armonica supera da subito per complessità e genialità la semplicità punk pur derivando da essa, è d'obbligo fare riferimento a una band la cui attitudine stilistica, pur assimilata agli stilemi punk, si evolve secondo un'intelligente traiettoria sonora che la porta a fissare dei cardini melodici ineludibili in ambito new wave: sono i Buzzcocks, i quali testimoniano la loro vivacità post-punk in soli tre album: "Another music in a different kitchen" (78), "Love bites" (78) e "A different kind of tension" (79).
Legati ai Buzzcocks sono i Magazine (il leader Howard Devoto milita nella prima incarnazione rigorosamente punk dei Buzzcocks, le cui tracce sono presenti nel 'bootleg' "Time's up" del '78, successivamente ristampato come disco ufficiale nel '91): qui la frenesia punk si mischia indelebilmente (col predominante uso delle tastiere) alle intuizioni glam-sperimentali dei Roxy Music (segnatamente i primi due album, nei quali sono presenti le sonorità genialmente non ortodosse di Brian Eno).
Dei Magazine (a proposito dei quali dobbiamo sottolineare una certa profondità dei testi non sempre riscontrabile in ambito new wave) ricordiamo i primi tre album, impeccabilmente arrangiati: "Real life" (78), "Secondhand daylight" (79) e "The correct use of soap" (80).
Contemporanei ai Magazine, e per questioni temporali e per approccio stilistico, sono i Japan di David Sylvian e gli Ultravox di John Foxx.
I primi, dopo gli inizi - "Adolescent sex" (78) e "Oscure alternatives" (78) - a imitazione pedissequa del Bryan Ferry e dei Roxy Music più glam e commerciali, producono, in un entusiasmante crescendo di originalità, "Quiet life" (79), "Gentlemen take polaroids" (80) e "Tin drum" (81) dove la new wave si tinge di soffusa elettronica e di piccole ma decisive tracce etniche (soprattutto orientali) e ambient.
Queste ultime caratteristiche, riprese da Ryuichi Sakamoto (già leader di una band giapponese di tecno-pop, la Yellow Magic Orchestra, e collaboratore di Sylvian) nella colonna sonora del film "Merry Christmas Mr. Lawrence" (83) (dove è presente un evocativo e struggente brano con un cantato da brividi, "Forbidden colours", a firma di entrambi), saranno alla base di tutti i lavori successivi di David Sylvian, una volta sciolti i Japan, e segnatamente di due dei grandi capolavori della new wave e del rock tutto, ossia il suo esordio solista dell'84, "Brilliant trees", e il successivo "Secrets of the beehive" (87) da ricordare accanto all'e.p. "Words with the shaman" (85), degno compagno della ricerca etnica di Peter Gabriel.
Gli Ultravox sono una band straordinariamente originale, capitanata da un artista poliedrico come John Foxx. I tre album della loro prima incarnazione - "Ultravox!" (77), "Ha! Ha! Ha!" (77) e "Systems of romance" (78) - intanto prendono formalmente le distanze dal primo punk grazie all'uso del violino e delle tastiere, che richiama certa ricchezza sonora dei primi 70, ma ciò che li rende, in fin dei conti, dei capolavori sono le stupefacenti capacità creative del gruppo (accompagnato inizialmente dalla produzione di Brian Eno) impegnato a unire con magica fluidità le opzioni più melodiche con una ricca tensione cupamente avanguardistica, assieme a un'invidiabile capacità di sintesi. La successiva carriera solista di Foxx, così come la seconda incarnazione del gruppo, saranno materia specifica della parte relativa all'elettronica.

Soffermiamoci ora su due gruppi fondamentali dell'estetica punk, i Clash e i Jam, i quali, intelligentemente evoluti e rimodellati i loro percorsi sonori in ulteriore e apprezzabilissimo sforzo di sintesi, appaiono tra i più interessanti e originali alfieri della new wave.
I primi, capitanati da Joe Strummer e Mick Jones, dopo aver esordito con un capolavoro del punk - "The Clash" (77) - e con un secondo album, "Give'em enough rope" (78), di transizione, in bilico tra istanze ancora crudamente punk e prime suggestioni wave, producono tra il '79 e l'80 una valanga di canzoni che vanno a comporre due monumenti come il doppio "London calling" e il triplo "Sandinista!": entrambi, pur nell'ottica del "formato canzone" e con un occhio di riguardo ai nuovi ritmi ballabili in voga da qualche anno, forniscono una straordinaria ricerca e rielaborazione delle matrici bianche (il rock'n'roll e il country) e nere (il blues, il funky, il reggae) del rock, dando il la', con dieci anni di anticipo, al "crossover" che oggi impera e di cui spesso si abusa. Il successivo "Combat rock" (82) (sia pure edito come album singolo) si propone come la summa della fuga in avanti dei Clash.
I Jam, proprietà quasi esclusiva di Paul Weller, dopo essersi barcamenati nei primi due album ("In the city" e "This is the modern world", entrambi del '77) tra la velocità superficiale del punk e l'amore per gli Who (inevitabili i riferimenti all'epica e all'epoca 'mod') approfondiscono, negli album successivi - "All mod cons" (78), "Setting sons" (79) e "Sound affects" (80) - il loro amore per certe sonorità sixties e per il rhythm and blues assieme a una connotazione sempre più marcatamente politica (di sinistra) nelle liriche che riprende la protesta sociale e il ribellismo contro il sistema (sempre più consapevole) dei Clash, politicizzati sin dall'inizio. L'ultimo album di studio prima dello scioglimento, "The gift" (82), evidenzia che le preferenze di Weller si sono ormai spostate verso un suono decisamente black: stanno nascendo gli Style Council, la sua nuova creatura intrisa di jazz, soul, funky e blues che, dopo diversi singoli di assaggio - tra cui ricordiamo la splendidamente evocativa "Long hot summer" (83) -, produrrà nell'84 un classico della new wave più "commercialmente sperimentale" come "Cafè bleu".

Per rimanere in ambito "nero" dal punto di vista musicale e "rosso" dal punto di vista politico, non possiamo dimenticare due meteore del post-punk inglese (schierate apertamente contro l'establishment conservatore di marca thatcheriana di fine 70 – inizio 80) che, sia pure nel loro rapido passaggio, hanno lasciato tracce indelebili nell'elaborazione di determinati percorsi new wave: i Pop Group (ovvero violenza punk, frenesia funky e rumorismo creativo nell'esordio "Y" del '79 e nel successivo "For how much longer do we tollerate mass murder?" dell'80) e i Gang of Four, straordinario incrocio tra minimalismo punk, ritmica funky e chitarrismo tagliente senza compromessi nel fulminante esordio "Entertainment!" (79) e nel successivo "Solid gold" (81).
Un'altra meteora sono i Dexys Midnight Runners, titolari di due album ("Searching for the young soul rebels" dell'80 e "Too rye ay" dell'82) che, del punk, recuperano la frenesia, ma che sono essenzialmente pervasi di soul, folk e rhythm and blues.

Alla new wave sono riconducibili i primi dischi di due dei gruppi più famosi del rock degli ultimi 20 anni: i Police di Sting e gli U2.
I primi esordiscono nel '77 addirittura con un singolo di chiara impronta punk, "Fall out", ma già i passi successivi sono caratterizzati da un'intelligente commistione di stili, che vede in primo piano una chitarra punk-sixties, la creazione di accattivanti melodie pop e una ritmica rock-reggae genialmente rielaborata dal drumming di Stewart Copeland: il tutto produce "Outlandos d'amour" del 1978 (che contiene quel capolavoro di delicatezza lirico-sonora che risponde al nome di "Roxanne"), l'ottimo "Regatta de blanc" (79) e "Zenyatta mondatta" (80), prima che il sofisticato pop d'alta classifica (pur di pregevole fattura) diventi obiettivo predominante.
Le incisioni iniziali degli irlandesi U2 si inseriscono alla perfezione nel post-punk, connotate come sono da un chitarrismo di impronta psichedelica e da un'invidiabile freschezza compositiva e di arrangiamento. I primi tre album racchiudono l'evoluzione del gruppo di Bono che misura - da "Boy" (80), attraverso "October" (81), fino alla compattezza di "War" (83) - la crescita di un suono che si fa via via sempre più epico e coinvolgente, merito delle sempre migliori capacità vocali del leader e del potente drumming di Larry Mullen jr. Liricamente, invece, si spazia dall'esposizione, ingenua ma ficcante, dei disagi giovanili a contatto con la realtà amara del mondo alla coraggiosa presa di posizione pacifista nell'ambito dell'annoso contrasto tra cattolici e protestanti in Irlanda. Dopo aver inciso un ottimo album live ("Under a Blood Red Sky", 1983), che chiude il primo periodo, gliU2, complice imprescindibile Brian Eno, producono nell'84 "The Unforgettable Fire", un album fondamentale nel definire i canoni necessari a creare un ponte di collegamento tra la new wave e le intuizioni ambientali di Eno.
Irlandesi come gli U2 e provenienti dal loro stesso ambiente musicale, i Virgin Prunes, pur frammentari nelle loro uscite discografiche, producono nell'82 un geniale album, "…If I die, I die", in bilico tra folk, rumorismo e una sperimentazione ritmica quasi tribale. Sempre dall'Isola verde arrivano i Boomtown Rats di Bob Geldof (che diverrà celebre soprattutto per aver ideato l'evento di "Live Aid"). Il loro "inno" resterà quella "I Don't Like The Mondays", contenuta in "The Fine Art Of Surfacing" (1979).

Scozzese è invece l'origine dei Simple Minds, i quali, al pari di altri gruppi analizzati in precedenza, privilegiano l'uso delle tastiere (evidente il tentativo di ricalcare senza troppa originalità i Roxy Music nei primi due album, "Life in a day" e "Real to real cacophony", entrambi del '79). La svolta viene annunciata nell'80 col terzo album, "Empires and dance", e si concretizza con i due dischi successivi: "Sons and fascination" dell'81 (con allegato il mini album proveniente dalle stesse 'sessions' "Sister feelings call") e "New gold dream 81-82-83-84" (82) sono due autentici capolavori, dove una ritmica trascinante, a volte quasi dance, e i maestosi interscambi tra chitarra e tastiere dominano il tutto, governati dalla sempre più matura voce di Jim Kerr. Il successivo "Sparkle in the rain" (84), pur attraente, risente del tentativo di imitare il suono magniloquente ed epico di "War" degli U2(anche a causa dell'utilizzo dello stesso produttore, Steve Lillywhite).

Di origine australiana (ma inglesi d'adozione) sono invece i Birthday Party del grandioso Nick Cave: il loro suono è un originalissimo mix di sgraziata velocità punk, di cabaret sperimentale tedesco, di disperato amore per i grandi bluesmen americani (compreso l'amelodico blues dei seminali primi album di Captain Beefheart) e di rumorismo lancinante e ossessivo, il tutto completato dalla cavernosa, cupissima, ma straordinariamente affascinante voce del leader.
Nei pochi anni di vita, contrassegnati da gravi problemi di droga, producono tre album - "The Birthday Party" (80), "Prayers on fire" (81), il migliore per coesione e compattezza, e "Junkyard (82) e due mini lp ("Bad seed" e "Mutinity!", entrambi dell'83).
Intrapresa la carriera solista, Nick Cave esordisce nell'84 con "From Her To Eternity", un'amelodica ma geniale rilettura del patrimonio rock, blues e country americano, proseguendo poi la strada proponendosi in maniera originale ed emozionante nell'ambito della canzone d'autore. Un percorso che raggiungerà probabilmente il suo apice nel 1990, con il maestoso "The Good Son".

In Italia, gli alfieri della new wave saranno due band fiorentine, i Litfiba (che poi abiureranno quelle sonorità orientandosi su un power-pop smaccatamente commerciale) e i Diaframma. Più "punk", invece, i CCCP di Giovanni Lindo Ferretti, poi confluiti nella nuova sigla CSI, sempre con buoni risultati.

Concludiamo questo viaggio nel post-punk parlando di alcune band che hanno uno dei loro grandi punti di riferimento nella psichedelia sixties inglese.
Cominciamo con gli Psychedelic Furs, fautori di un suono spesso psichedelico (belli gli intarsi di sax e chitarra) duro ma fluido, che ricorda il glam-rock dei Roxy Music e dei T. Rex di Marc Bolan. Notevoli sono l'esordio, omonimo, dell'80 e il secondo, "Talk talk talk", dell'anno dopo, mentre i successivi tradiranno un eccessivo amore per l'orecchiabilità. Su tutto, comunque, la monocorde ma affascinante voce di Richard Butler, spesso e volentieri in debito verso le tonalità bowiane.
Interessanti anche Echo & the Bunnymen, con una chitarra che percorre in maniera lancinante ma mai ossessiva le canzoni donando un decisivo tocco di rock psichedelico che ricorda spesso i Television e (in parte) gli U2. I primi due album - "Crocodiles" (80) e "Heaven up here" (81) - sono i più genuini, mentre il terzo e il quarto - "Porcupine" (83) e "Ocean rain" (84) - pur gradevoli, flirtano troppo con il pop.
Nei Sound di Adrian Borland (che morirà tragicamente nel 1999, gettandosi contro un treno) l'amore per la psichedelia è sottolineato, invece che dalle chitarre, dall'uso delle tastiere decisamente sixties: anche qui i primi due dischi -"Jeopardy" (80) e "From the lions mouth" (81) - sono i migliori.

In ultimo, parliamo dei Teardrop Explodes, la straordinaria formazione capitanata da Julian Cope, titolare di due album di studio - "Kilimanjaro" (80), capolavoro di moderna e guizzante psichedelia, e "Wilder" (81), leggermente inferiore - dove le tastiere psichedeliche memori dei Pink Floyd e dei Soft Machine si mischiano ai bizzarri richiami al genio malato di Syd Barrett. Intrapresa la carriera solista, Cope produrrà nello stesso anno (84) due nuovi capolavori di psichedelia aggiornata ("World shut your mouth" e, soprattutto, "Fried") ma anche splendidamente evocativa del fantasma dell'ex leader dei Floyd.

2. Il dark-gothic

La musica dark, che, in realtà, nella natia Inghilterra, prende il ben più suggestivo nome (dal punto di vista letterario) di musica gothic, è uno dei filoni più floridi dell'intera scena new wave inglese: attraverso la catarsi del punk anch'esso recupera, metabolizza e rielabora alcuni linguaggi musicali del passato.

I padri putativi del dark si possono rintracciare nell'hard venato di paesaggi spettrali dei primi Black Sabbath di Tony Iommi e Ozzy Osbourne, nella psichedelia ombrosa e spaziale di "A saucerful of secrets" dei Pink Floyd di Roger Waters, nelprogressive cupo e macabro dei Van Der Graaf Generator di Peter Hammill, nella disperata malattia sonora e lirica dei Velvet Underground di Lou Reed e John Cale, nelle tetre litanie della sepolcrale Nico e, infine, nel David Bowie tenebroso della cosiddetta "trilogia berlinese".

Musicalmente, siamo in presenza di suoni cupi, ossessivi, tetri, mentre, dal punto di vista lirico, l'indice viene puntato verso atmosfere lugubri o, comunque, opprimenti, malinconiche, tristi: in una parola, la cifra stilistica del dark è un romanticismo sì minimale e oscuro, ma quanto mai ricco di tensione emotiva.

Alla fine degli anni '70, mentre gruppi come i Clash e i Jam ribadiscono, nei testi e negli atteggiamenti, il loro impegno sociale e politico, altri gruppi e altri autori scelgono volontariamente un totale ripiegamento su se stessi e sul loro mondo in miniatura, dando sfogo a liriche e a suoni minimali, ora malinconici, ora disperati, ma completamente impregnati di un romanticismo che rimette in primo piano la sensibilità sofferente dell'uomo contemporaneo, non più padrone del mondo, ma sfasato rispetto a se stesso e agli altri.

Simbolo di questa visione della vita e progenitore-catalizzatore di tutte le caratteristiche del "mood" dark che abbiamo evidenziato fino ad ora è sicuramente Ian Curtis, leader degli indimenticabili Joy Division, morto suicida a soli 23 anni.
Gli unici due album incisi dalla band, "Unknown pleasures" (79) e "Closer" (80), sono, musicalmente e liricamente, un viaggio senza ritorno negli abissi dell'incomunicabilità e della solitudine interiore, un precipitare freddo e insensato in una sorta di "cupio dissolvi".
I testi di Curtis, nello stesso momento in cui appaiono fotografare e descrivere in maniera distaccata uno stato d'animo, in realtà lo vivisezionano, analizzandone tutti gli aspetti più reconditi e dolorosi in una sorta di metaforica richiesta d'aiuto al mondo esterno che, già si sa, non verrà raccolta.
La musica si evolve dalle asprezze post-punk del primo album, attraverso una messe di singoli tra cui non si può non ricordare la tenera e disperata "Love will tear us apart" (80), fino a raggiungere un'essenzialità di suono quasi perfetta in"Closer": la chitarra è scabra e tagliente, la batteria e il basso inanellano ritmi ossessivi, la voce di Curtis, monocorde ma profonda, è il "trait d'union" di un crescendo memorabile, dove risaltano perle come "Atrocity exhibition", "Isolation", "Decades", "Heart and soul".

Nello stesso anno d'esordio dei Joy Division, un altro gruppo figlio del punk - ricordiamo gli album d'esordio "Pink flag" (77) e "Chair missing" (78) intrisi di ricerca minimalista - dà alle stampe un disco seminale nell'elaborazione di un certo tipo di suono new wave e, specificamente, dark: sono i Wire e l'album si intitola "154". In questo disco la fa da padrone un minimalismo sperimentale nei suoni come nei testi: frammenti lirico-sonori che si esaltano nell'oscura "I should have known better".
In "154" la rozza asprezza e la cruda velocità del punk lasciano lentamente il posto a una musica lenta ed evocativa, cifra stilistica che, accanto a un feroce e scabroso tormento esistenziale, segnerà il trionfo artistico della cosiddetta "trilogia dark" di Robert Smith e dei suoi Cure, i quali, dopo un esordio di interessante commistione tra pop e punk, "Three imaginary boys" (79), sprofondano per tre anni in un buio lacerante.
Il mondo si è trasformato in una landa desolata e incomprensibile, dove la natura fredda si aggroviglia a sentimenti sempre più scarnificati e la via d'uscita non solo non c'è, ma non c'è mai stata: è "A Forest", vero capolavoro di una vita e brano guida di "Seventeen seconds" (80), primo album della trilogia.
Qui e in "Faith" (81) la chitarra si contorce in riff taglienti e gelidamente morbosi, le tastiere, più che ricamare in primo piano come nel progressive e nel glam, tessono un sotterraneo ordito di continua tensione, il drumming è ossessivamente metronomico e il basso si trasforma, da strumento essenzialmente ritmico, in supporto melodico di malinconica efficacia, mentre i testi ora sussurrano ora gridano la coscienza timorosamente consapevole di un'esistenza sospesa in un mondo assurdo e senza significato.
Tutte queste caratteristiche vengono sublimate all'ennesima potenza nell'ultimo album della trilogia, "Pornography" (82), vero capolavoro del dark "all times" e disco capace di esprimere una sincera poetica rock, sganciata dalla più o meno pedissequa imitazione di modelli altrui. Dal primo all'ultimo brano (citiamo almeno "One hundred years", "The hanging garden", "The figurehead", "A strange day" e la title track) è una trasognata cavalcata, a volte drammatica, a volte rassegnata, verso il nulla dell'esistenza.
Allontanatosi negli anni successivi dal dark, Smith ci tornerà per darne una sorta di testamento nel brano d'apertura dell'album "Kiss me kiss me kiss me" (87) (disco orientato maggiormente in senso pop-psichedelico): in "The Kiss" (un quasi strumentale da brivido con digressioni chitarristiche lancinanti e ossessive) il bacio viene evocato come apportatore di amore e, contemporaneamente, di morte: le due pulsioni più forti dell'uomo sono servite e il cerchio si può chiudere.

"Sorella" dark di Robert Smith è Susan Dallion (in arte Siouxsie Sioux), carismatica e attraente leader dei Siouxsie and the Banshees.
Il gruppo, che avrà a più riprese tra le sue fila proprio Robert Smith alla chitarra e alla composizione - straordinario un suo brano dark, "Blow the house down", in un disco, "Hyaena" (84), di più chiara impronta pop-psichedelica - attraversa la new wave inglese seguendo un suo percorso coerente e lucido che lo porterà dal punk meno immediato e più sofisticato a una brillante e mai banale psichedelia, il tutto retto dalla potente e oscura voce di Siouxsie, capace di far precipitare l'ascoltatore nelle più cupe profondità del suono dark: a tal proposito segnaliamo i primi cinque album, "The scream" (78), "Join hands" (79), "Kaleidoscope" (80), "Juju" (81), esemplare compendio dell'arte dei Banshees , e "A kiss in the dreamhouse" (82).

Iniziale deferenza alle sonorità strumentali e vocali di Siouxsie Sioux è presente nei magici Cocteau Twins, band capofila del cosiddetto dream-pop. Ricordiamo gli album "Garlands" (82) e "Head over heels" (83) e i delicati Ep "Lullabies" (82), "Peppermint pig" (83) e "Sunburst and snowblind" (83), nei quali sono anche presenti soffuse ma elaborate orchestrazioni elettroniche. Successivamente la band di Elizabeth Fraser saprà trovare una sua originalità compositiva che la allontanerà dal gothic e, più in generale, dalla new wave, ma che sarà in grado di mettere nel giusto risalto le potenzialità vocali della cantante. L'onirico, spettrale "Treasure" (1984) resterà il vertice assoluto di questa band e di questo genere musicale, nonche' uno dei dischi piu' suggestivi della storia del rock.

Simili per impostazione sono i Dead Can Dance, band australiana ma che incide per un'etichetta inglese: atmosfere gotiche e sepolcrali, utilizzo sapientemente dosato di strumentazione acustica ed elettronica, il tutto accanto a un delicato cantato che a volte si erge a picchi da brivido della vocalist Lisa Gerrard, sono le prerogative del loro esordio - l'Ep "The garden of the arcane delights" (83) - del primo, omonimo, album (84) e del secondo, "Spleen and ideal" (85), che, già nel titolo, coniuga alla perfezione le istanze dark con quelle più sensibilmente romantico-decadenti. Già a partire da "The Serpent's Egg" (1988) la band australiana introdurrà i primi elementi di un sound etnico e ancestrale, che diventerà il suo marchio di fabbrica.

Progetto del tutto particolare è This Mortal Coil (supergruppo di cui fanno parte, tra gli altri, componenti dei Cocteau Twins e dei Dead Can Dance), emanazione della "4AD", etichetta, appunto, delle sopracitate band e titolare di un delicatissimo primo album, "It'll end in tears" (84), in bilico tra sperimentazione e atmosfere gotiche eteree e malinconiche.

Contemporanee ai Joy Division e ai Cure sono le prime esperienze discografiche deiBauhaus e dei Killing Joke, altri due gruppi cardine per la definizione del suono gothic e non solo.
Entrambi sommano, alle istanze glacialmente melodiche delle band che abbiamo citato in precedenza, un background fondamentalmente punk nell'approccio, un sottile gusto per certo hard intellettualistico e per certo rumorismo chitarristico ed elettronico, accanto alle inquietanti voci, rispettivamente, di Peter Murphy e di Jaz Coleman.

Dei Bauhaus (la cui caratura tecnica e l'eclettismo stilistico li porta a fondere in un "unicum" tutto le splendide peculiarità dark del loro suono) ricordiamo il tenebroso singolo "Bela Lugosi's dead" del 1979 (chiari i riferimenti alla letteratura gotica inglese, con basso e chitarra a tracciare lividi percorsi sonici) e gli album "In the flat field" del 1980 (impressionante per l'impatto devastante e per la compattezza sonora), "Mask" del 1981 e il malinconico "The sky's gone out" (82); dei Killing Joke il primo, seminale, omonimo album (80) (apripista per un infinità di suoni che verranno, specie sul versante industrial) e il successivo "What's this for!" (81).

La commistione tra sonorità ora oscure, ora rumoristiche, ora addirittura psichedeliche trova la sua più completa realizzazione nel progetto Public Image Ltd., creatura di Johnny Lydon (Rotten, ai tempi in cui era frontman dei Sex Pistols).
Al, tutto sommato, semplificante approccio al rock dei Pistols, i P.I.L.contrappongono una complessità sonora, frutto della contemporanea assimilazione e rielaborazione su basi più consce del messaggio punk, che di fatto li rende l'ideale "prova provata" dell'intrinseco legame che unisce indissolubilmente, in una sorta di evoluzione darwiniana, il sound e il "mood" del punk con le più elaborate atmosfere new wave.
Di questa band sono imprescindibili i primi, solidissimi, tre album, dal suono ossessivo e claustrofobico: "First issue" (78), "Metal box - Second Edition" (79) e "The flowers of romance" (81).

In ultimo citiamo i Theatre of Hate, i Sisters of Mercy, i Cult e i Mission, i cui rispettivi album d'esordio - "Westworld" (82), "First and last and always" (85), "Dreamtime" (84) e "God's own medicine" (86) - presentano un approccio gothic maturo e affascinante, ma, in certi momenti (specie per quanto concerne Cult eMission) eccessivamente epico, in una sorta di "retoricizzazione" del suono dark. ISisters Of Mercy saranno anche autori di uno degli "inni" del movimento gotico, quella "Temple Of Love" che a distanza di anni mantiene ancora intatto il suo lugubre fascino.

Le intuizioni del movimento dark-gothic britannico saranno riprese oltreoceano dai californiani Christian Death di Rozz Williams (memorabile il loro "Catastrophe Ballet" del 1984), oltre che da mostri sacri della scena industrial e hardcore, comeNine Inch NailsMinistry e Swans (autori quest'ultimi di un disco, "Children Of God", che può essere considerato il capolavoro assoluto della musica dark d'oltre Oceano). E a partire dagli anni Novanta, a colorarsi di tinte oscure sarà anche l'elettronica di maestri ambient-gothic, come Lycia e Black Tape For A Blue Girl. (Cit. onda rock)

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